La Via delle Arti
Opéra de Paris

Opéra de Paris

L’ancien régime dell’Opéra di Parigi

Tra il 1781 e il 1794 chi percorreva l’ampio Boulevard Saint-Martin, al limite nord della città di Parigi, poteva ammirare la nuova sede dell’Opéra. Il passante, fermandosi un attimo e osservandone la facciata, poteva notare quattro busti messi ben in mostra. Raffiguravano personaggi considerati importanti per la storia della musica francese: il compositore Jean-Baptiste Lulli (o Lully, 1632-1687), il suo librettista Philippe Quinault (1635-1688), e i compositori Jean-Philippe Rameau (1683-1764) e Christoph Willibald Gluck (1714-1787). Questi busti erano il segno tangibile e sempre manifesto del tributo che l’Opéra accordava nella sua storia a questi artisti.

Le origini: Pierre Perrin e Jean Baptiste Lully

Jean Baptiste Lully

Già alla fine del XVIII secolo un profondo legame univa l’Opéra alla sua storia e alla sua tradizione lirica, costruitasi in circa un secolo di attività. L’opera lirica francese è debitrice dell’opera italiana ma all’atto fondativo individua la propria identità nella distinzione dalla più antica controparte d’oltralpe. Il poeta Pierre Perrin (1620-1675), che per primo portò l’opera in Francia, era un convinto sostenitore della musicalità della lingua francese, muovendosi in tal senso contro il pensiero comune all’epoca che non le riconosceva le stesse qualità dell’italiano, del greco e del latino. Grazie al sostegno di Luigi XIV, attento alla politica culturale del Regno oltre che egli stesso cultore delle arti, Perrin ottenne il privilegio di quel nuovo genere di spettacolo e fondò l’Académie d’Opéra nel 1669 nella forma dell’accademia reale, sul modello cioè delle altre accademie sorte a Parigi nella seconda metà del XVII secolo, da cui ricalcava in parte la struttura organizzativa, attività e finalità generali. A differenza di queste, però, la nuova accademia si caratterizzava fondamentalmente per lo stretto rapporto con il pubblico sul modello del commercial theater inglese. Da questa natura ibrida derivavano da un lato le riflessioni sulla lingua francese nel suo rapporto con la musica, e dall’altro l’attenzione programmatica alla sensibilizzazione musicale del pubblico. Le implicazioni erano chiare nel privilegio che Luigi XIV accordò a Perrin:

Il Re spera non solamente che queste scelte contribuiscano al nostro divertimento e a quello del Pubblico, ma ancora che i nostri soggetti, adeguandosi al gusto della Musica, impercettibilmente si perfezionino in quest’Arte, una delle più nobili tra le Arti liberali.

Per poter svolgere il compito assegnatole al meglio, l’Opéra godette fin dall’inizio del monopolio musicale sul Regno. Queste caratteristiche istituzionali furono centrali nella determinazione del repertorio nei decenni seguenti. Il primo nucleo di spettacoli fu organizzato grazie al contributo del compositore Jean Baptiste Lulli, successore di Perrin alla guida dell’Opéra dal 1672 alla sua morte. Le prime opere furono in maggioranza nel genere della pastorale, d’origine rinascimentale e dal contenuto bucolico, e tragédie-lyrique, dal contenuto mitologico o classico. Non si trattava di un semplice riadattamento dell’opera italiana, ma su di essa si innestavano elementi autoctoni ed originali per adeguarsi alle necessità della lingua francese. Fondeva infatti elementi tratti dal balletto d’origine rinascimentale, dal carattere sfarzoso e pittoresco, con la tragedia classica francese nella forma stabilita da Corneille e Racine, opportunamente riadattata alle esigenze musicali di Lulli dal suo librettista Philippe Quinault. La forma era rigidamente costruita su un’ouverture, un prologo (dove confluiscono gli elementi del ballet de cour) e solitamente cinque atti. Lulli riuscì, attraverso un’incredibile fantasia creatrice, a risolvere il problema dei “recitativi secchi” dal ritmo serrato o “ariosi” provenienti dall’opera italiana e che si adattavano male alla lingua francese: attingendo dalla tradizione declamatoria di Corneille e Racine impose nei propri recitativi precise indicazioni di prassi esecutiva, adattando la musica al testo. Rispetto al contenuto, gli artisti che si cimentarono da Lulli in poi in questo genere immaginavano la sfera politica attraverso fantasie teologiche sulla sovranità e sul governo.

I drammi portati sulla scena, tratti dal repertorio dell’antichità classica o dalla mitologia, erano stati concepiti entro un contesto politico-culturale ben preciso: le tragédie-lyriques possono essere definite come una forma assolutistica del teatro musicale per il patrocinio reale, base istituzionale per una accademia “commerciale”, e affermazione rituale della monarchia. Il repertorio dell’Opéra è costruito fino all’ultimo quarto del Settecento soprattutto su quest’ultimo genere e su quelli da esso derivati.

La prima querelle: Rameau contro Lulli

Jean Philippe Rameau

Questa produzione, che andava incontro sia alle finalità accademiche che al gusto della corte e dell’aristocrazia, si sarebbe presto trasformata in un repertorio tradizionale. Il passaggio è simbolicamente collocato nel regolamento del 1714, anno in cui la produzione operistica di Lulli fu “canonizzata”nell’eventualità in cui un’opera non avesse prodotto sufficienti repliche per almeno due settimane di programmazione, l’Académie doveva garantire la prosecuzione degli appuntamenti successivi con una delle opere di Lulli. Nello stesso regolamento si ordinava che l’indomani di Quasimodo, cioè il momento in cui terminava il silenzio degli spettacoli, si dovesse provvedere a suonare o un pezzo nuovo, o un’opera di Lulli, seguita da un balletto. Queste prescrizioni non sarebbero state abolite che nel 1779.

La prima querelle musicale che infiammò l’opinione pubblica francese nel Settecento si originò dal rinnovamento estetico e teorico apportato da Jean-Philippe Rameau. Sebbene questo compositore riprendesse superficialmente le caratteristiche del predecessore, la centralità teorica e pratica che diede all’armonia sulla melodia pone i due compositori su piani completamente diversi: per dirla con altre parole, Rameau, per i suoi scopi espressivi, a differenza di Lulli impiegava esclusivamente mezzi armonici. Due questioni sono qui centrali: da un lato l’infaticabile e continua teorizzazione, specchio di un processo più generale di razionalizzazione della musica che lo pose in dialogo critico con i philosophes, dall’altro il rapporto con il pubblico, che gradualmente cominciò sempre più ad apprezzarne la produzione lirica. Contemporaneo e interlocutore di tutti i principali illuministi, di Voltaire, D’Alambert, Rousseau, così come di teorici della musica Marmontel e padre Martini, Rameau è spinto nelle sue riflessioni da «uno spirito fortemente razionalista di stampo cartesiano», il cui fulcro si trova nel suo Traité de l’harmonie réduite à ses principes naturales del 1722, seguito poco tempo dopo dal Nouveau système de musique théorique. La sua riflessione portava in superficie la problematica questione del valore da attribuire alla musica nel pensiero illuminista, largamente considerata un divertimento se non proprio un semplice ornamento alla poesia, qualcosa cioè di profondamente irrazionale.  L’impatto culturale della produzione di Rameau non si avvertì solo nella teoria musicale, ma anche nella pratica degli spettacoli. Nel 1733 fu messa in scena all’Opéra la sua prima tragedia lirica, Hippolyte et Arice, non immediatamente compresa così come altre sue prime opere a causa della nuova complessità strutturale, ma col tempo sempre più apprezzata dal pubblico. Negli anni centrali del secolo Rameau fu il compositore più presente nella programmazione, e numerose sarebbero state le riprese nei decenni successivi, fin dentro alla Rivoluzione. Proprio questa attenzione pubblica verso le sue opere aveva spaccato il mondo della musica tra i sostenitori delle innovazioni di Rameau e i “tradizionalisti” legati a Lulli.

La seconda e la terza querelle: lirica francese contro lirica italiana

Qualche decennio più tardi una nuova querelle, quella detta “des Bouffons” (1752-54), coinvolse non solo il mondo della musica, ma anche e pienamente quello dei philosophes. La controversia si era scatenata in seguito alla rappresentazione nel 1752 dell’intermezzo buffo La Serva Padrona di Giovanni Battista Pergolesi (1710-1736), celebrato come uno dei massimi rappresentanti della scuola musicale napoletana. La novità era assoluta per l’Académie Royale de Musique, in quanto per la prima volta metteva in scena un’opera in lingua italiana, contrariamente alla sua vocazione originaria. Il contrasto era tanto più acuito dalla scelta di metterla in programmazione nella stessa sera accanto alla tragedia lirica Acis et Galathée di Lulli. L’episodio fu preso a pretesto dagli enciclopedisti per approfondire e discutere il tema del rapporto tra musica e parola da un lato, e del rapporto tra lingua francese e liricità dall’altro, spesso intrecciando nei loro discorsi esigenze estetiche, semplici propensioni e vaghe aspirazioni politiche e sociali: segno che la musica era pienamente entrata nel «grande dibattito delle idee» dell’Illuminismo. La querelle des Bouffons si spense però dopo breve tempo quando Luigi XV decretò il bando dei bouffons nel 1754.

Niccolò Piccinni

Vent’anni dopo, nel 1774, la famiglia reale invitava a corte il noto operista italiano Niccolò Piccinni (1728-1800), appartenente alla scuola musicale napoletana, il quale raggiungeva Parigi alla vigilia del capodanno del 1777. Già da qualche tempo nella capitale operava Christoph Willibald Gluck, internazionalmente celebrato per la sua produzione operistica. L’operazione messa in atto per far venire il compositore in Francia non era stata semplice, ma fu facilitata da diversi interessi personali, da parte di Gluck, dell’ambasciatore francese a Vienna François-Louis du Roullet (1716-1786), dell’allora amministratore dell’Opéra Antoine Dauvergne e dalla stessa corte di Francia, in quanto Maria Antonietta era stata sua allieva in precedenza. Giunto a Parigi nel 1774, Gluck aveva profondamente modificato il gusto del pubblico francese nei confronti dell’arte lirica grazie alle sue opere, opportunamente riadattate alla lingua francese per cui parteggiava nel confronto con quella italiana. La poetica di Gluck, riadattata alle esigenze parigine, era stata espressa per la prima volta nel 1769 nella prefazione della sua opera Alceste, scritta assieme al librettista Calzabigi. In essa, Gluck sosteneva la necessità di «restituire alla musica la sua propria funzione di assecondare la poesia nell’esprimere e definire la vicenda», contrariamente alle esibizioni di virtuosismo tipiche dell’opera italiana, donando maggiore semplicità allo stile compositivo e adattando la musica alle esigenze drammatiche del libretto. Questa “rivoluzione” musicale, come fu riconosciuta allora, conobbe un incredibile successo di pubblico a Parigi quando fu rappresentata nel 1774 la prima opera francese del compositore, Iphigénie en Aulide, su libretto di Roullet da un riadattamento di Racine. Questa e le sue successive opere modificarono profondamente il rapporto del pubblico con l’opera lirica verso una maggiore partecipazione emotiva, ben testimoniata nelle sue lettere dalla scrittrice Julie de Lespinasse (1732-1776), in cui sosteneva che la musica di Gluck era «così profonda, così sensibile, così lacerante, che era assolutamente impossibile parlare di quelle emozioni che trasmetteva». Tanto fu incisiva la produzione di Gluck che i successivi compositori furono forzati ad aggiornarsi e ad adeguarsi al nuovo gusto, compreso lo stesso Piccinni. Quando il compositore italiano giunse a Parigi qualche anno dopo, Gluck godeva ormai degli allori della nazione. L’allora responsabile amministrativo dell’Opéra, Jacques De Vismes, seguendo una propria strategia sia economica che di aggiornamento al gusto internazionale europeo, introdusse Piccinni e i suoi bouffons nella programmazione, provocando nell’immediato un violento dibattito che riprese il discorso abbandonato vent’anni prima sulla musica francese, ora sostenuta dalla fazione dei “gluckisti”, posta in contrapposizione a quella italiana, sostenuta invece dai “piccinnisti”. Senza addentrarci nei dibattiti musicologici, possiamo però rilevare alcune importanti conseguenze di questa ultima querelle del XVIII secolo. Innanzitutto, lo straordinario successo di Gluck gli valse ancora prima della sua morte nel 1787 un posto nell’“Olimpo” dei compositori francesi. Le sue opere non conobbero alcun arresto nemmeno durante la Rivoluzione e ancora oggi nell’atrio dell’Opéra Garnier è visibile una sua statua monumentale posta accanto a quelle di Lulli e di Rameau. Questi tre compositori rappresentano simbolicamente l’autorità con cui o contro cui gli operisti successivi dovettero confrontarsi. Secondo, la querelle aveva tra le sue cause strategie imprenditoriali (De Vismes) e interessi personali (principalmente Maria Antonietta) che poco avevano a che vedere con il dibattito sull’estetica musicale, segno che la musica era pienamente coinvolta in sfere non strettamente legate all’ambito delle idee, e rispondeva anche a logiche economiche e di politica culturale internazionale. Infine, come per la querelle des Bouffons, la stampa, compresa quella periodica, aveva continuato a rivestire un ruolo di primo piano nel dibattito. La Rivoluzione, raccogliendo questa eredità, si troverà nella difficile posizione di voler rompere ideologicamente col proprio passato musicale, ma di non poter fare a meno di quella tradizione così amata e profondamente vissuta dal pubblico e che, ancor’oggi, è testimoniata dalle statue monumentali nell’atrio dell’Opéra Garnier.